giovedì 18 luglio 2013

Burocrazia: causa di tutti i mali?

E ci risiamo con la burocrazia colpevole quasi di tutto. Anche nel caso Kazakistan la colpa è tutta dei burocrati, Alfano non ne sapeva niente, non ha colpe e pertanto non si deve dimettere. In sostanza non conta niente, ma questo già si sapeva.

Anche oggi sul Corriere della Sera nell’articolo a firma di Antonio Polito dal titolo “Burocrazia forte e politica debole”, partendo da quest’ultima vergognosa vicenda si sostiene che sempre più spesso l’ultima parola ce l’hanno i burocrati che tra troppe norme utilizzano quella che corrisponde a quanto hanno già deciso. La politica è sempre più debole e - siccome in natura il vuoto si riempie - più forti sono diventati i “mandarini” che controllano la macchina statale.



Per burocrazia, dal francese bureau – ufficio - connesso al greco krátos - potere - , si intende l’insieme di apparati e di persone ai quali è affidata, a diversi livelli, l’amministrazione dello Stato e degli Enti Locali, ovvero la Pubblica Amministrazione,   ma ormai il termine ha assunto un connotato spregiativo più vicino al significato letterale ovvero potere dei funzionari che ricoprono gli uffici (burocrati) che si associa immediatamente all’inefficienza e allo spreco.

Non siamo capaci di varare un piano credibile di radicale riduzione delle uscite, quindi ci affidiamo all'aumento della pressione fiscale, ma in questo modo non usciremo mai dalla crisi affermavano Alberto Alesina e Francesco Giavazzi in un articolo del Corriere della Sera apparso il 12 luglio scorso e intitolato  Perché è difficile tagliare la spesa - L'insuperabile tabù italiano” .

Riprendendo in parte il discorso di Giavazzi e Alesina, nell’articolo dal titolo La ragnatela del non fare - il peso abnorme della burocrazia, uscito il 14 luglio sempre sul Corriere, Angelo Panebianco affermava che “la società affonda lentamente, imprigionata in un triangolo della morte ai cui tre lati stanno, rispettivamente, le tasse, già altissime, in aumento, la spesa pubblica in aumento e la burocratizzazione, anch'essa in aumento” e su quest’ultima l’autore appuntava la sua attenzione, definendola ragno velenoso che crea una ragnatela normativa di norme ingarbugliate in continua proliferazione che appaiono prive di scopo, razionalità e logica e che soffocano la società, ma che servono all’autoriproduzione degli apparati burocratici e danno lavoro anche a ogni tipo di mediatori professionali (avvocati, commercialisti, eccetera) che sguazzano in regole e procedure complesse e nei contenzioni che ne derivano.

Infine ancora sul Corriere il 15 luglio, Pietro Ichino in un articolo dal titolo Lettera sulla burocrazia - gli ostacoli che non aiutano il cittadino onesto “La mia odissea per pagare una tassa” , ci raccontava la sua odissea di cittadino che deve registrare un contratto concludendo che la burocrazia che affligge il nostro Paese fa molto danno ai cittadini, ma forse ne fa ancora di più allo Stato stesso che la produce.

In sintesi l’apparato burocratico sarebbe la causa di ogni male. E la politica ne sarebbe un po’ complice, un po’ ostaggio.

Ora, pur conoscendo le magagne e i limiti dell’apparato amministrativo, ritengo che il discorso tenda a individuare un generico capro espiatorio nell’apparato burocratico, alleggerendo le colpe della politica che di questo apparato sarebbe quasi vittima al pari dei cittadini.

Mi domando tuttavia se sia il caso di spezzare una lancia in favore della Pubblica Amministrazione, insomma se sia il caso di difenderla o meno. Anche se ormai nell’immaginario collettivo dipendente pubblico significa parassita, mi domando se sia sempre vero.

Nessuno credo possa negare che nel nostro paese si facciano troppe leggi e soprattutto confuse, farraginose, spesso scritte anche male, con continui rimandi ad altre leggi, per non parlare di quelle obsolete, ma purtroppo ancora vigenti, che nessuno si ricorda di abrogare, e se in questa giungla legislativa è difficile districarsi per i giuristi, figurarsi per i cittadini non esperti della materia. Nessuno credo possa negare che ci siano burocrati e anche professionisti esterni che nella confusione ci  sguazzano, e che nell’apparato amministrativo, sia centrale che locale, ci siano tanti, troppi, incapaci.

Tuttavia in primo luogo occorre distinguere tra chi redige le troppe e confuse normative che ci complicano la vita e chi, nelle varie amministrazioni statali e locali, le deve applicare e che spesso ne è parimenti vittima, allo stesso modo dei cittadini. Anche all’interno delle amministrazioni capita di domandarsi chi mai le scriva: i giuristi che sono in parlamento e nel governo, con il supporto degli apparati centrali? Certo talvolta qualche funzionario "zelante" ci mette del suo.

Panebianco propone di eliminare il predominio dei giuristi nell'amministrazione, anzi afferma che “occorrerebbe impedire a chiunque di accedere ai livelli medio-superiori di una qualsivoglia amministrazione pubblica nazionale o locale (e anche delle magistrature amministrative, dal Consiglio di Stato alla Corte dei conti) se dotato solo di una formazione giuridica. Servirebbero invece specialisti addestrati a valutare l'impatto - effetti e costi economici e sociali - di qualunque norma e procedura. Specialisti nel semplificare anziché nel complicare. Meglio se potessero anche vantare lunghi soggiorni di formazione presso altre amministrazioni pubbliche europee e occidentali.”
Concordo con il fatto che oggi siano necessarie altre competenze che si aggiungano a quelle giuridiche, ma spero che a qualcuno non venga in mente di eliminare la formazione giuridica di base, considerato che negli ultimi anni le università hanno sfornato una marea di laureati in materie più o meno evanescenti che da qualche parte devono essere collocati e purtroppo ho l’impressione che finiscano nelle amministrazioni a fare ulteriori danni, nei limiti delle attuali possibilità di assunzione delle stesse.

Con lo scopo, almeno dichiarato, di rimediare a certi malanni della pubblica amministrazione, dall’inefficienza, agli abusi, all’opacità, negli ultimi anni abbiamo anche assistito al varo di ulteriori numerose normative. C’è da domandarsi tuttavia se le norme di legge per evitare e, nel caso, colpire comportamenti illeciti, illegittimi o anche solo scorretti non ci fossero anche prima, se non bastasse applicare il misconosciuto art. 97 della Costituzione sul buon andamento e l’imparzialità della Pubblica Amministrazione, le norme del Codice Penale sui reati dei pubblici funzionari, la legge 241/90 e successive modifiche sul procedimento amministrativo, e se il profluvio delle norme recentemente varate in materia, che Panebianco definisce l’industria della lotta agli abusi, siano veramente la soluzione.
Ho dei dubbi perché sono convinta che furbi e disonesti continueranno a prosperare finché non avranno la certezza di essere colpiti, e prima ancora emarginati, e a tal fine non è necessaria qualche legge in più ma la certezza dell’applicazione delle legge e l’ostracismo da parte degli onesti.

In secondo luogo se di fronte a qualsiasi disservizio la colpa è solo del responsabile amministrativo o tecnico di turno, che però generalmente non viene rimosso, mentre il politico può cadere dalle nuvole, affermare di non saperne niente, mi domando cosa ci stia a fare  quest’ultimo e per quale motivo il cittadino contribuente lo dovrebbe mantenere nel suo incarico? E la colpa in eligendo e in vigilando non si considerano?

L’apparato amministrativo è costituito di dipendenti assunti con concorso pubblico per partecipare al quale è stato chiesto il possesso di determinati requisiti valutati anche con apposite prove di esame. Lo Stato e le amministrazioni locali avrebbero tutto l’interesse ad assumere le migliori professionalità sul mercato,  ma purtroppo è storia risaputa, anche se voglio sperare che non sia la norma, che ci sono concorsi truccati, che si assumono amici e parenti spesso incompetenti del politico di turno, oppure persone cresciute negli apparati di partito, in genere yes man/woman chiamati a lavorare più per i politici che per la collettività, e che a questi si fa fare carriera anche se non hanno le qualità per farla. Ma in tali casi chi è responsabile di decisioni e comportamenti illeciti, illegittimi, vessatori o anche solo inutili e comunque dannosi per il Paese e per i cittadini? Il burocrate, certo, ma anche, e in primis, chi ce l’ha messo. Non si può parlare solo di complicità, ma di responsabilità diretta della politica. E ancora di chi è la responsabilità se un funzionario non si dimostra all’altezza dei compiti assegnati e non viene rimosso, ma talvolta addirittura promosso? Non è mica vero che nella Pubblica Amministrazione non si possa licenziare se ci sono i giusti motivi. C’è solo da domandarsi perché non lo si faccia, se non in casi rarissimi. Il clientelismo è il vero tarlo, forse ancora di più degli abusi e della corruzione, che poi spesso ne sono logica conseguenza.

In terzo luogo credo che si debba sempre distinguere invece di fare di tutta l’erba un fascio.

Come ho detto è innegabile la presenza di pessimi burocrati, generalmente molto vicini ai politici che ci li hanno messi, ma non mancano persone capaci ed esperte. Il problema è che spesso questi ultimi sono malvisti e attaccati da politici e collaboratori. Altri, per tema di essere emarginati se non fanno ciò che il politico vuole o credono voglia, si limitano a vivacchiare cadendo spesso nella depressione che è nemica della creatività oltre che dell’efficienza.

Quello su cui tutti apparentemente concordano è che è necessaria una riforma della Pubblica Amministrazione, ma ero giovanissima e già se ne parlava.  Non so se e quale sia la ricetta giusta allo scopo, ma  è certo che in primo luogo necessita un generale cambiamento di mentalità che ha a che fare con l’orgoglio dell’appartenenza, la consapevolezza di servire la collettività oltre che ovviamente con l’etica di base che riguarda tutti, cittadini, pubblica amministrazione e politica. E’ il degrado etico della società, di cui anche l’apparato amministrativo fa parte, che deve essere arginato.

Se sia ancora possibile fare qualcosa di concreto e risolutivo è difficile dirlo. Fare analisi, individuare le cause delle magagne è importante, cercare capri espiatori molto meno, ma quello che veramente ci vuole, oltre ovviamente a individuare e applicare delle soluzioni concrete, è una spinta al rinascimento. Occorre ridare orgoglio al paese e anche ai suoi apparati, valorizzare la professionalità e il merito, emarginare furbi e incapaci, assumere solo i migliori e valorizzarli. Dubito però che la politica, che si regge sulle clientele, voglia e possa farlo, altrimenti l’avrebbe fatto da tempo.

Purtroppo in genere grandi cambiamenti seguono a eventi disastrosi. Siamo sull’orlo del baratro, dobbiamo aspettare di esserci caduti definitivamente per rialzarci e impostare la società su basi più etiche?


mercoledì 17 luglio 2013

Zia Mame - Sensibilità camp e omosessualità?

Ho appena finito di leggere "Zia Mame" di Patrick Dennis, pseudonimo dietro il quale si nasconde Edward Everett Tunner III, autore che mi era perfettamente sconosciuto.

Il romanzo è scritto in prima persona e il ragazzino orfano di entrambi i genitori che viene affidato alle cure dell'insolita zia si chiama Patrick Dennis, come lo pseudonimo dell'autore, ma non è chiaro se le vicende descritte siano vere o frutto di fantasia. Per la trama leggere qui

Nel 2009, anno in cui fu ripubblicato  in Italia da Adelphi a oltre cinquanta anni dalla sua prima uscita nel 1956 presso Bompiani, se ne parlò molto definendolo un capolavoro.

Lo comprai allora, ma presa da altre letture e interessi me ne ero quasi dimenticata.  L'ho preso in mano qualche giorno fa e a lettura conclusa devo dire che francamente non mi è sembrato così brillante e divertente come la critica lo aveva definito.  

Non nego che alcune parti del romanzo siano esilaranti e che il personaggio dell'eccentrica e affascinante Zia Mame resti impresso. Particolarmente riuscita mi pare anche la descrizione dell'alta società americana tra la fine degli anni 20 del '900 e il secondo dopoguerra con le mode culturali che l'attraversano.  

Tuttavia sia perché in alcune parti l'eccentricità della signora sembra sconfinare nella balordaggine,  sia perché alcune vicende oltre che totalmente inverosimili risultano anche un po' prolisse, non sono riuscita a divertirmi fino in fondo, anche se la scrittura è ironica e brillante almeno per buona parte del romanzo. Forse sarebbe stato necessario un buon taglio ad alcune parti.

Piuttosto pesante ma certamente interessante il saggio Zia Mame e “Cedie” di Matteo Codignola, editor di Adelphi, inserito in appendice. Attraverso di esso ho appreso che il romanzo sarebbe un capolavoro Camp (secondo wikipedia il termine  si riferisce all'uso deliberato, consapevole e sofisticato del kitsch nell'arte, nell'abbigliamento, negli atteggiamenti), e poiché la sensibilità Camp è stata messa in relazione con l'omosessualità  sarebbe anche un manifesto della cultura omosessuale. Addirittura Zia Mame sarebbe un'icona gay. Ma quando mai? La signora mi è sempre parsa assolutamente eterosessuale. Forse non sono entrata nello spirito del romanzo.




mercoledì 10 luglio 2013

Il corpo della donna e la pubblicità


Leggo che quattro senatrici del PD (Silvana Amati, Manuela Granaiolo, Daniela Valentini e Valeria Fedeli) hanno presentato una proposta di legge dal titolo “Misure in materia di contrasto alla discriminazione della donna nelle pubblicità e nei media” con il quale si intende fornire una risposta concreta alla lotta contro le discriminazioni di genere, perpetrate sotto forma di utilizzo di immagini che trasmettono, non solo esplicitamente, ma anche in maniera allusiva, simbolica, camuffata, subdola e subliminale, messaggi che suggeriscono, incitano o non combattono il ricorso alla violenza esplicita o velata, alla discriminazione, alla sottovalutazione, alla ridicolizzazione, all’offesa delle donne.

Ho l'impressione che si tratti della riproposizione di un DDL della scorsa legislatura, sottoscritto da diversi senatori, in larga parte del PD, ma non tutti, essendoci tra i firmatari anche esponenti dell'IDV e del PDL. Il testo del nuovo DDL non l'ho trovato, ma da quanto leggo, mi pare riproponga le stesse cose di quello precedente.


Ho visto che se ne è parlato molto in questi giorni sia sui quotidiani che sui social network, in larga parte criticando la proposta che poco avrebbe a che vedere con la dignità della donna e molto con una cultura cattolica di fondo per la quale una donna "poco vestita" è un po' cretina e in sostanza va in cerca di guai, come si può leggere in questo articolo

Anche se non si può negare che alcune pubblicità siano volgari, concordo con chi parla di "medioevo" in chiave laica e di moralismo catto-fascista e ritiene pericoloso l'attacco alla libertà di usare il proprio corpo come meglio si crede domandandosi altresì, come fa quest'altro articolo, se le immagini di donne intente a pulire alacremente il cesso di casa mentre i mariti sono a conquistare il mondo là fuori saranno considerate ugualmente offensive per la dignità della donna .

Penso anche che avremo una società migliore quando le pubblicità presenteranno una quantità di uomini poco vestiti e che lavano i cessi pari a quella delle donne, ma ovviamente a ciò non ci si può arrivare per norma di legge ma per cultura. 


mercoledì 3 luglio 2013

L'uso di internet, Saviano e il caso Snowden

Credo che si sia tutti d’accordo nell’affermare che internet ha rivoluzionato il mondo, qualcuno addirittura ritiene che abbia determinato cambiamenti paragonabili a quelli conseguenti all’invenzione dei caratteri a stampa di Gutenberg.

Sarebbero oltre due miliardi le persone che accedono a una connessione e sono in costante aumento anche nei paesi in via di sviluppo.

Oggi non è più concepibile lavorare senza il sostegno di programmi informatici e di collegamenti in rete; con un semplice click possiamo accedere a una miriade di informazioni, eliminando i tempi lunghi delle ricerche sui testi cartacei; con i blog e soprattutto con i social network possiamo interagire con amici, ma anche con persone sconosciute in qualsiasi parte del mondo, e possiamo esprimere le nostre opinioni e confrontarle con quelle altrui senza bisogno di esser professionisti dei media.

Certo l’uso di internet presenta lati positivi e negativi e, come del resto ogni altro strumento, può essere male utilizzato.

Nell’immensa mole di informazioni che circolano in rete ce ne siano tante non verificabili, di cui non è citata la fonte, spesso di nessun valore, o talvolta assurde e ridicole, vere e proprie bufale. E anche queste, soprattutto attraverso l’utilizzo dei social network, circolano con una rapidità impensabile in passato, ma si tratta sempre di saper cercare e discernere e questo ovviamente dipende dal livello culturale di ciascuno e non dal mezzo usato.

Talvolta il confronto di opinioni sui social network dà luogo a scontri abbastanza indegni del vivere civile, ma questo è un rischio cui andiamo incontro anche nella vita reale. Certamente un po’ di attenzione nella scelta delle persone di cui circondarsi andrebbe sempre fatta, sia nel reale che nel virtuale, tanto più oggi, in cui mi sembra ci sia una radicalizzazione nelle divergenze, e, mentre da una parte si proclama la morte delle ideologie, dall'altra lo scontro politico diventa più acceso e si basa più sugli insulti all’intelligenza di chi la pensa diversamente che su argomentazioni razionali. E si deve anche sperare che la crisi che stiamo vivendo non finisca per trasformare gli insulti in qualcosa di più grave. Ma certo non si può dare la colpa di un aumento del degrado morale ai social network. Basterebbe infatti pensare al linguaggio che talvolta viene usato nei talk show dove spesso non si illustrano idee e programmi ma ci si insulta urlando. Quindi se c’è un problema etico non lo possiamo addebitare all’uso della rete, ma a un deriva che coinvolge l’intera società e che ha tante cause e tanti aspetti.

Mi domando poi se anche l’uso di un pessimo italiano sia da ascrivere ai social network o se invece, come credo più probabile, derivi dal fallimento di una scuola sempre più facile che non seleziona, che non premia il merito, cosa che non può che avere delle ripercussioni sul modo di esprimersi in tutti i contesti. Certo il mezzo non si presta a sviscerare argomentazioni articolate; su internet generalmente si legge scorrendo, saltando parti, e si finisce anche per scrivere come quando si parla prestando poca attenzione alla sintassi e talvolta anche alla grammatica, per non parlare dell’uso di orribili abbreviazioni che impedisce talvolta di capire il senso di quanto viene scritto. Tuttavia sono sempre evidenti le differenze tra persona e persona e un buon livello culturale si riconosce ma è sempre stato di pochi.

C’è chi pensa poi che attraverso i social network possiamo sia essere derubati di quanto pubblichiamo che meglio controllati. Ogni tanto vedo che qualcuno posta su Facebook degli avvertimenti, a mio parere assolutamente inutili, anche dal punto di vista legale, circa la proprietà di quanto pubblicato. Certo se pubblichiamo una nostra foto su una pagina internet qualsiasi o un post su un blog o su un social network rischiamo che altri se ne approprino, ma finché lo fanno senza modifiche e indicando la fonte per me non ci sono problemi, quanto invece all’uso distorto è sempre possibile rivolgersi alle autorità competenti. E personalmente non utilizzerei mai un social network, che è una piazza virtuale ma sempre più grande di quelle di qualsiasi città nel mondo, per esprimere i miei pensieri più intimi, tenuto conto che spesso è rischioso renderli noti anche alle persone che riteniamo più vicine, ma che domani, per tanti motivi che non possiamo prevedere, potrebbero rivelarsi diverse da come le abbiamo considerate nel momento in cui abbiamo dato loro la nostra fiducia.

Quanto all’essere controllati, credo che lo si sia sempre stati, magari in passato con mezzi più artigianali, e comunque per non esserlo oggi dovremmo cominciare a buttare il cellulare, la carta di credito, il navigatore. Ma chi vorrebbe più rinunciare a questi mezzi? E poi comunque passiamo continuamente sotto le varie telecamere che ci sono dappertutto nei negozi e nelle città e che si spera siano utilizzate solo per la sicurezza di tutti.

Non nego che talvolta sui social network si perde tanto tempo che si potrebbe meglio utilizzare, ma ogni mezzo va usato con moderazione e se qualcuno si fa prendere la mano sono affari suoi.

C’è anche chi sostiene che mentre si pensa di avere aperto una finestra sul mondo ci stiamo rinchiudendo in un mondo virtuale perdendo il senso dei veri rapporti umani. Io tuttavia mi domando se questo senso non si fosse già perso prima. Credo infatti che sia sempre stato molto difficile, specialmente dopo una certa età, aprirsi a conoscenze nuove specialmente se si vive in una città di provincia. Molte persone passata la gioventù si rinchiudono per obbligo o per  scelta  in una cerchia ristretta costituita dalla famiglia, da qualche amico, sempre meno, e dall’ambiente di lavoro. Magari c’è il rischio che ci se ne renda meno conto, perché stando su Facebook e su Twitter ci si sente meno soli, ma certamente non è il caso di illudersi  di avere allargato più di tanto la nostra cerchia. Sui social network è facile finire per avere qualche centinaio di amici o di “follower”, di cui non  sappiamo niente, con i quali non interagiamo quasi mai, di cui non ci si ricorda nemmeno perché gli si sia chiesto l’amicizia o perché si sia accolto la loro richiesta o perché ci seguano e che non eliminiamo solo per pigrizia.

Ritengo tuttavia che non si possa prendere a pretesto il cattivo utilizzo della rete e soprattutto dei social network e i diversi aspetti negativi che certamente ci sono per proporre l’inserimento di controlli e limitazioni come avviene nei paesi retti da dittature e come qualcuno ha suggerito anche nei nostri paesi c.d. democratici.

E’ di stamani un intervento di Roberto Saviano intitolato “In Medias Res” che lo scrittore leggerà questa sera al Festival di Massenzio a Roma e che è stato pubblicato sulla Repubblica di oggi e che prende a pretesto il caso Snowden per porsi il problema della necessità di porre delle regole nel vasto mare del web.  

Non voglio dire che alcuni dei problemi evidenziati da Saviano non siano da considerare, come quello non indifferente della privacy. Ed è certamente vero, come del resto accennavo sopra, che  il web è un mare magnum dove si può trovare chiunque e qualsiasi cosa, dove circolano menzogne, idiozie, notizie prive di sostanza o, peggio, false, e dove l'esercito dei complottisti è piuttosto ampio. Ma è anche vero, e lo riconosce anche Saviano, che proprio per effetto della rete è molto più difficile tenere nascoste certe nefandezze. Non per niente la temono le dittature, ma anche le nostre democrazie.

Sul caso Snowden, Saviano afferma che potevamo immaginare che i servizi segreti spiassero non solo milioni di cittadini ma anche le diplomazie dei paesi alleati, però c’è una differenza sostanziale tra avere un sospetto e avere una prova di questo. Certo perché ora sono in imbarazzo chi spiava e chi era stato spiato e lo sapeva, ma deve far finta di indignarsi, di chiedere spiegazioni, continuando tuttavia, come ha dimostrato il dirottamento dell’aereo del Presidente della Bolivia, a perseverare in comportamenti servili.

E comunque il caso Snowden anche se ha scatenato innumerevoli commenti sui social network non è mica stato diffuso dalla rete,  ma, mi pare, da un media tradizionale, un'autorevole testata giornalistica come il britannico Guardian.

Poi non mi è piaciuta la parte dell’intervento ove l’autore dice “Quel che rende forte un’azienda o uno Stato è che ciò che accade al suo interno rimanga conosciuto soltanto a pochi o che venga decodificato, tradotto, prima di essere diffuso. Invece Assange prima e ora Snowden hanno fatto in modo che quelle informazioni raggiungessero il web senza filtro, mediazione, spiegazioni.” Dunque Saviano preferisce un mondo in cui certe notizie siano mediate dagli “addetti ai lavori”. Io preferirei un mondo in cui il livello culturale ed etico medio fossero più elevati.

Posso concordare quando invece l’autore sostiene che “in una situazione del genere, i giornali, i media classici, si trovano davanti al compito difficilissimo di fungere da setacci volti a filtrare solo le notizie a prova di verifiche. I siti dei quotidiani oggi hanno questo ruolo cruciale: costruire autorevolezza. Eppure tale ruolo è minato nella sua credibilità dagli evidenti condizionamenti politici e ancor più economici che gravano sugli assetti e bilanci di molti dei media tradizionali”.
Purtroppo è così ma se i media classici non sono in grado di assolvere al loro compito la colpa non è della rete. E non è ponendo dei limiti alla rete che si risolve il problema.



giovedì 18 luglio 2013

Burocrazia: causa di tutti i mali?

E ci risiamo con la burocrazia colpevole quasi di tutto. Anche nel caso Kazakistan la colpa è tutta dei burocrati, Alfano non ne sapeva niente, non ha colpe e pertanto non si deve dimettere. In sostanza non conta niente, ma questo già si sapeva.

Anche oggi sul Corriere della Sera nell’articolo a firma di Antonio Polito dal titolo “Burocrazia forte e politica debole”, partendo da quest’ultima vergognosa vicenda si sostiene che sempre più spesso l’ultima parola ce l’hanno i burocrati che tra troppe norme utilizzano quella che corrisponde a quanto hanno già deciso. La politica è sempre più debole e - siccome in natura il vuoto si riempie - più forti sono diventati i “mandarini” che controllano la macchina statale.



Per burocrazia, dal francese bureau – ufficio - connesso al greco krátos - potere - , si intende l’insieme di apparati e di persone ai quali è affidata, a diversi livelli, l’amministrazione dello Stato e degli Enti Locali, ovvero la Pubblica Amministrazione,   ma ormai il termine ha assunto un connotato spregiativo più vicino al significato letterale ovvero potere dei funzionari che ricoprono gli uffici (burocrati) che si associa immediatamente all’inefficienza e allo spreco.

Non siamo capaci di varare un piano credibile di radicale riduzione delle uscite, quindi ci affidiamo all'aumento della pressione fiscale, ma in questo modo non usciremo mai dalla crisi affermavano Alberto Alesina e Francesco Giavazzi in un articolo del Corriere della Sera apparso il 12 luglio scorso e intitolato  Perché è difficile tagliare la spesa - L'insuperabile tabù italiano” .

Riprendendo in parte il discorso di Giavazzi e Alesina, nell’articolo dal titolo La ragnatela del non fare - il peso abnorme della burocrazia, uscito il 14 luglio sempre sul Corriere, Angelo Panebianco affermava che “la società affonda lentamente, imprigionata in un triangolo della morte ai cui tre lati stanno, rispettivamente, le tasse, già altissime, in aumento, la spesa pubblica in aumento e la burocratizzazione, anch'essa in aumento” e su quest’ultima l’autore appuntava la sua attenzione, definendola ragno velenoso che crea una ragnatela normativa di norme ingarbugliate in continua proliferazione che appaiono prive di scopo, razionalità e logica e che soffocano la società, ma che servono all’autoriproduzione degli apparati burocratici e danno lavoro anche a ogni tipo di mediatori professionali (avvocati, commercialisti, eccetera) che sguazzano in regole e procedure complesse e nei contenzioni che ne derivano.

Infine ancora sul Corriere il 15 luglio, Pietro Ichino in un articolo dal titolo Lettera sulla burocrazia - gli ostacoli che non aiutano il cittadino onesto “La mia odissea per pagare una tassa” , ci raccontava la sua odissea di cittadino che deve registrare un contratto concludendo che la burocrazia che affligge il nostro Paese fa molto danno ai cittadini, ma forse ne fa ancora di più allo Stato stesso che la produce.

In sintesi l’apparato burocratico sarebbe la causa di ogni male. E la politica ne sarebbe un po’ complice, un po’ ostaggio.

Ora, pur conoscendo le magagne e i limiti dell’apparato amministrativo, ritengo che il discorso tenda a individuare un generico capro espiatorio nell’apparato burocratico, alleggerendo le colpe della politica che di questo apparato sarebbe quasi vittima al pari dei cittadini.

Mi domando tuttavia se sia il caso di spezzare una lancia in favore della Pubblica Amministrazione, insomma se sia il caso di difenderla o meno. Anche se ormai nell’immaginario collettivo dipendente pubblico significa parassita, mi domando se sia sempre vero.

Nessuno credo possa negare che nel nostro paese si facciano troppe leggi e soprattutto confuse, farraginose, spesso scritte anche male, con continui rimandi ad altre leggi, per non parlare di quelle obsolete, ma purtroppo ancora vigenti, che nessuno si ricorda di abrogare, e se in questa giungla legislativa è difficile districarsi per i giuristi, figurarsi per i cittadini non esperti della materia. Nessuno credo possa negare che ci siano burocrati e anche professionisti esterni che nella confusione ci  sguazzano, e che nell’apparato amministrativo, sia centrale che locale, ci siano tanti, troppi, incapaci.

Tuttavia in primo luogo occorre distinguere tra chi redige le troppe e confuse normative che ci complicano la vita e chi, nelle varie amministrazioni statali e locali, le deve applicare e che spesso ne è parimenti vittima, allo stesso modo dei cittadini. Anche all’interno delle amministrazioni capita di domandarsi chi mai le scriva: i giuristi che sono in parlamento e nel governo, con il supporto degli apparati centrali? Certo talvolta qualche funzionario "zelante" ci mette del suo.

Panebianco propone di eliminare il predominio dei giuristi nell'amministrazione, anzi afferma che “occorrerebbe impedire a chiunque di accedere ai livelli medio-superiori di una qualsivoglia amministrazione pubblica nazionale o locale (e anche delle magistrature amministrative, dal Consiglio di Stato alla Corte dei conti) se dotato solo di una formazione giuridica. Servirebbero invece specialisti addestrati a valutare l'impatto - effetti e costi economici e sociali - di qualunque norma e procedura. Specialisti nel semplificare anziché nel complicare. Meglio se potessero anche vantare lunghi soggiorni di formazione presso altre amministrazioni pubbliche europee e occidentali.”
Concordo con il fatto che oggi siano necessarie altre competenze che si aggiungano a quelle giuridiche, ma spero che a qualcuno non venga in mente di eliminare la formazione giuridica di base, considerato che negli ultimi anni le università hanno sfornato una marea di laureati in materie più o meno evanescenti che da qualche parte devono essere collocati e purtroppo ho l’impressione che finiscano nelle amministrazioni a fare ulteriori danni, nei limiti delle attuali possibilità di assunzione delle stesse.

Con lo scopo, almeno dichiarato, di rimediare a certi malanni della pubblica amministrazione, dall’inefficienza, agli abusi, all’opacità, negli ultimi anni abbiamo anche assistito al varo di ulteriori numerose normative. C’è da domandarsi tuttavia se le norme di legge per evitare e, nel caso, colpire comportamenti illeciti, illegittimi o anche solo scorretti non ci fossero anche prima, se non bastasse applicare il misconosciuto art. 97 della Costituzione sul buon andamento e l’imparzialità della Pubblica Amministrazione, le norme del Codice Penale sui reati dei pubblici funzionari, la legge 241/90 e successive modifiche sul procedimento amministrativo, e se il profluvio delle norme recentemente varate in materia, che Panebianco definisce l’industria della lotta agli abusi, siano veramente la soluzione.
Ho dei dubbi perché sono convinta che furbi e disonesti continueranno a prosperare finché non avranno la certezza di essere colpiti, e prima ancora emarginati, e a tal fine non è necessaria qualche legge in più ma la certezza dell’applicazione delle legge e l’ostracismo da parte degli onesti.

In secondo luogo se di fronte a qualsiasi disservizio la colpa è solo del responsabile amministrativo o tecnico di turno, che però generalmente non viene rimosso, mentre il politico può cadere dalle nuvole, affermare di non saperne niente, mi domando cosa ci stia a fare  quest’ultimo e per quale motivo il cittadino contribuente lo dovrebbe mantenere nel suo incarico? E la colpa in eligendo e in vigilando non si considerano?

L’apparato amministrativo è costituito di dipendenti assunti con concorso pubblico per partecipare al quale è stato chiesto il possesso di determinati requisiti valutati anche con apposite prove di esame. Lo Stato e le amministrazioni locali avrebbero tutto l’interesse ad assumere le migliori professionalità sul mercato,  ma purtroppo è storia risaputa, anche se voglio sperare che non sia la norma, che ci sono concorsi truccati, che si assumono amici e parenti spesso incompetenti del politico di turno, oppure persone cresciute negli apparati di partito, in genere yes man/woman chiamati a lavorare più per i politici che per la collettività, e che a questi si fa fare carriera anche se non hanno le qualità per farla. Ma in tali casi chi è responsabile di decisioni e comportamenti illeciti, illegittimi, vessatori o anche solo inutili e comunque dannosi per il Paese e per i cittadini? Il burocrate, certo, ma anche, e in primis, chi ce l’ha messo. Non si può parlare solo di complicità, ma di responsabilità diretta della politica. E ancora di chi è la responsabilità se un funzionario non si dimostra all’altezza dei compiti assegnati e non viene rimosso, ma talvolta addirittura promosso? Non è mica vero che nella Pubblica Amministrazione non si possa licenziare se ci sono i giusti motivi. C’è solo da domandarsi perché non lo si faccia, se non in casi rarissimi. Il clientelismo è il vero tarlo, forse ancora di più degli abusi e della corruzione, che poi spesso ne sono logica conseguenza.

In terzo luogo credo che si debba sempre distinguere invece di fare di tutta l’erba un fascio.

Come ho detto è innegabile la presenza di pessimi burocrati, generalmente molto vicini ai politici che ci li hanno messi, ma non mancano persone capaci ed esperte. Il problema è che spesso questi ultimi sono malvisti e attaccati da politici e collaboratori. Altri, per tema di essere emarginati se non fanno ciò che il politico vuole o credono voglia, si limitano a vivacchiare cadendo spesso nella depressione che è nemica della creatività oltre che dell’efficienza.

Quello su cui tutti apparentemente concordano è che è necessaria una riforma della Pubblica Amministrazione, ma ero giovanissima e già se ne parlava.  Non so se e quale sia la ricetta giusta allo scopo, ma  è certo che in primo luogo necessita un generale cambiamento di mentalità che ha a che fare con l’orgoglio dell’appartenenza, la consapevolezza di servire la collettività oltre che ovviamente con l’etica di base che riguarda tutti, cittadini, pubblica amministrazione e politica. E’ il degrado etico della società, di cui anche l’apparato amministrativo fa parte, che deve essere arginato.

Se sia ancora possibile fare qualcosa di concreto e risolutivo è difficile dirlo. Fare analisi, individuare le cause delle magagne è importante, cercare capri espiatori molto meno, ma quello che veramente ci vuole, oltre ovviamente a individuare e applicare delle soluzioni concrete, è una spinta al rinascimento. Occorre ridare orgoglio al paese e anche ai suoi apparati, valorizzare la professionalità e il merito, emarginare furbi e incapaci, assumere solo i migliori e valorizzarli. Dubito però che la politica, che si regge sulle clientele, voglia e possa farlo, altrimenti l’avrebbe fatto da tempo.

Purtroppo in genere grandi cambiamenti seguono a eventi disastrosi. Siamo sull’orlo del baratro, dobbiamo aspettare di esserci caduti definitivamente per rialzarci e impostare la società su basi più etiche?


mercoledì 17 luglio 2013

Zia Mame - Sensibilità camp e omosessualità?

Ho appena finito di leggere "Zia Mame" di Patrick Dennis, pseudonimo dietro il quale si nasconde Edward Everett Tunner III, autore che mi era perfettamente sconosciuto.

Il romanzo è scritto in prima persona e il ragazzino orfano di entrambi i genitori che viene affidato alle cure dell'insolita zia si chiama Patrick Dennis, come lo pseudonimo dell'autore, ma non è chiaro se le vicende descritte siano vere o frutto di fantasia. Per la trama leggere qui

Nel 2009, anno in cui fu ripubblicato  in Italia da Adelphi a oltre cinquanta anni dalla sua prima uscita nel 1956 presso Bompiani, se ne parlò molto definendolo un capolavoro.

Lo comprai allora, ma presa da altre letture e interessi me ne ero quasi dimenticata.  L'ho preso in mano qualche giorno fa e a lettura conclusa devo dire che francamente non mi è sembrato così brillante e divertente come la critica lo aveva definito.  

Non nego che alcune parti del romanzo siano esilaranti e che il personaggio dell'eccentrica e affascinante Zia Mame resti impresso. Particolarmente riuscita mi pare anche la descrizione dell'alta società americana tra la fine degli anni 20 del '900 e il secondo dopoguerra con le mode culturali che l'attraversano.  

Tuttavia sia perché in alcune parti l'eccentricità della signora sembra sconfinare nella balordaggine,  sia perché alcune vicende oltre che totalmente inverosimili risultano anche un po' prolisse, non sono riuscita a divertirmi fino in fondo, anche se la scrittura è ironica e brillante almeno per buona parte del romanzo. Forse sarebbe stato necessario un buon taglio ad alcune parti.

Piuttosto pesante ma certamente interessante il saggio Zia Mame e “Cedie” di Matteo Codignola, editor di Adelphi, inserito in appendice. Attraverso di esso ho appreso che il romanzo sarebbe un capolavoro Camp (secondo wikipedia il termine  si riferisce all'uso deliberato, consapevole e sofisticato del kitsch nell'arte, nell'abbigliamento, negli atteggiamenti), e poiché la sensibilità Camp è stata messa in relazione con l'omosessualità  sarebbe anche un manifesto della cultura omosessuale. Addirittura Zia Mame sarebbe un'icona gay. Ma quando mai? La signora mi è sempre parsa assolutamente eterosessuale. Forse non sono entrata nello spirito del romanzo.




mercoledì 10 luglio 2013

Il corpo della donna e la pubblicità


Leggo che quattro senatrici del PD (Silvana Amati, Manuela Granaiolo, Daniela Valentini e Valeria Fedeli) hanno presentato una proposta di legge dal titolo “Misure in materia di contrasto alla discriminazione della donna nelle pubblicità e nei media” con il quale si intende fornire una risposta concreta alla lotta contro le discriminazioni di genere, perpetrate sotto forma di utilizzo di immagini che trasmettono, non solo esplicitamente, ma anche in maniera allusiva, simbolica, camuffata, subdola e subliminale, messaggi che suggeriscono, incitano o non combattono il ricorso alla violenza esplicita o velata, alla discriminazione, alla sottovalutazione, alla ridicolizzazione, all’offesa delle donne.

Ho l'impressione che si tratti della riproposizione di un DDL della scorsa legislatura, sottoscritto da diversi senatori, in larga parte del PD, ma non tutti, essendoci tra i firmatari anche esponenti dell'IDV e del PDL. Il testo del nuovo DDL non l'ho trovato, ma da quanto leggo, mi pare riproponga le stesse cose di quello precedente.


Ho visto che se ne è parlato molto in questi giorni sia sui quotidiani che sui social network, in larga parte criticando la proposta che poco avrebbe a che vedere con la dignità della donna e molto con una cultura cattolica di fondo per la quale una donna "poco vestita" è un po' cretina e in sostanza va in cerca di guai, come si può leggere in questo articolo

Anche se non si può negare che alcune pubblicità siano volgari, concordo con chi parla di "medioevo" in chiave laica e di moralismo catto-fascista e ritiene pericoloso l'attacco alla libertà di usare il proprio corpo come meglio si crede domandandosi altresì, come fa quest'altro articolo, se le immagini di donne intente a pulire alacremente il cesso di casa mentre i mariti sono a conquistare il mondo là fuori saranno considerate ugualmente offensive per la dignità della donna .

Penso anche che avremo una società migliore quando le pubblicità presenteranno una quantità di uomini poco vestiti e che lavano i cessi pari a quella delle donne, ma ovviamente a ciò non ci si può arrivare per norma di legge ma per cultura. 


mercoledì 3 luglio 2013

L'uso di internet, Saviano e il caso Snowden

Credo che si sia tutti d’accordo nell’affermare che internet ha rivoluzionato il mondo, qualcuno addirittura ritiene che abbia determinato cambiamenti paragonabili a quelli conseguenti all’invenzione dei caratteri a stampa di Gutenberg.

Sarebbero oltre due miliardi le persone che accedono a una connessione e sono in costante aumento anche nei paesi in via di sviluppo.

Oggi non è più concepibile lavorare senza il sostegno di programmi informatici e di collegamenti in rete; con un semplice click possiamo accedere a una miriade di informazioni, eliminando i tempi lunghi delle ricerche sui testi cartacei; con i blog e soprattutto con i social network possiamo interagire con amici, ma anche con persone sconosciute in qualsiasi parte del mondo, e possiamo esprimere le nostre opinioni e confrontarle con quelle altrui senza bisogno di esser professionisti dei media.

Certo l’uso di internet presenta lati positivi e negativi e, come del resto ogni altro strumento, può essere male utilizzato.

Nell’immensa mole di informazioni che circolano in rete ce ne siano tante non verificabili, di cui non è citata la fonte, spesso di nessun valore, o talvolta assurde e ridicole, vere e proprie bufale. E anche queste, soprattutto attraverso l’utilizzo dei social network, circolano con una rapidità impensabile in passato, ma si tratta sempre di saper cercare e discernere e questo ovviamente dipende dal livello culturale di ciascuno e non dal mezzo usato.

Talvolta il confronto di opinioni sui social network dà luogo a scontri abbastanza indegni del vivere civile, ma questo è un rischio cui andiamo incontro anche nella vita reale. Certamente un po’ di attenzione nella scelta delle persone di cui circondarsi andrebbe sempre fatta, sia nel reale che nel virtuale, tanto più oggi, in cui mi sembra ci sia una radicalizzazione nelle divergenze, e, mentre da una parte si proclama la morte delle ideologie, dall'altra lo scontro politico diventa più acceso e si basa più sugli insulti all’intelligenza di chi la pensa diversamente che su argomentazioni razionali. E si deve anche sperare che la crisi che stiamo vivendo non finisca per trasformare gli insulti in qualcosa di più grave. Ma certo non si può dare la colpa di un aumento del degrado morale ai social network. Basterebbe infatti pensare al linguaggio che talvolta viene usato nei talk show dove spesso non si illustrano idee e programmi ma ci si insulta urlando. Quindi se c’è un problema etico non lo possiamo addebitare all’uso della rete, ma a un deriva che coinvolge l’intera società e che ha tante cause e tanti aspetti.

Mi domando poi se anche l’uso di un pessimo italiano sia da ascrivere ai social network o se invece, come credo più probabile, derivi dal fallimento di una scuola sempre più facile che non seleziona, che non premia il merito, cosa che non può che avere delle ripercussioni sul modo di esprimersi in tutti i contesti. Certo il mezzo non si presta a sviscerare argomentazioni articolate; su internet generalmente si legge scorrendo, saltando parti, e si finisce anche per scrivere come quando si parla prestando poca attenzione alla sintassi e talvolta anche alla grammatica, per non parlare dell’uso di orribili abbreviazioni che impedisce talvolta di capire il senso di quanto viene scritto. Tuttavia sono sempre evidenti le differenze tra persona e persona e un buon livello culturale si riconosce ma è sempre stato di pochi.

C’è chi pensa poi che attraverso i social network possiamo sia essere derubati di quanto pubblichiamo che meglio controllati. Ogni tanto vedo che qualcuno posta su Facebook degli avvertimenti, a mio parere assolutamente inutili, anche dal punto di vista legale, circa la proprietà di quanto pubblicato. Certo se pubblichiamo una nostra foto su una pagina internet qualsiasi o un post su un blog o su un social network rischiamo che altri se ne approprino, ma finché lo fanno senza modifiche e indicando la fonte per me non ci sono problemi, quanto invece all’uso distorto è sempre possibile rivolgersi alle autorità competenti. E personalmente non utilizzerei mai un social network, che è una piazza virtuale ma sempre più grande di quelle di qualsiasi città nel mondo, per esprimere i miei pensieri più intimi, tenuto conto che spesso è rischioso renderli noti anche alle persone che riteniamo più vicine, ma che domani, per tanti motivi che non possiamo prevedere, potrebbero rivelarsi diverse da come le abbiamo considerate nel momento in cui abbiamo dato loro la nostra fiducia.

Quanto all’essere controllati, credo che lo si sia sempre stati, magari in passato con mezzi più artigianali, e comunque per non esserlo oggi dovremmo cominciare a buttare il cellulare, la carta di credito, il navigatore. Ma chi vorrebbe più rinunciare a questi mezzi? E poi comunque passiamo continuamente sotto le varie telecamere che ci sono dappertutto nei negozi e nelle città e che si spera siano utilizzate solo per la sicurezza di tutti.

Non nego che talvolta sui social network si perde tanto tempo che si potrebbe meglio utilizzare, ma ogni mezzo va usato con moderazione e se qualcuno si fa prendere la mano sono affari suoi.

C’è anche chi sostiene che mentre si pensa di avere aperto una finestra sul mondo ci stiamo rinchiudendo in un mondo virtuale perdendo il senso dei veri rapporti umani. Io tuttavia mi domando se questo senso non si fosse già perso prima. Credo infatti che sia sempre stato molto difficile, specialmente dopo una certa età, aprirsi a conoscenze nuove specialmente se si vive in una città di provincia. Molte persone passata la gioventù si rinchiudono per obbligo o per  scelta  in una cerchia ristretta costituita dalla famiglia, da qualche amico, sempre meno, e dall’ambiente di lavoro. Magari c’è il rischio che ci se ne renda meno conto, perché stando su Facebook e su Twitter ci si sente meno soli, ma certamente non è il caso di illudersi  di avere allargato più di tanto la nostra cerchia. Sui social network è facile finire per avere qualche centinaio di amici o di “follower”, di cui non  sappiamo niente, con i quali non interagiamo quasi mai, di cui non ci si ricorda nemmeno perché gli si sia chiesto l’amicizia o perché si sia accolto la loro richiesta o perché ci seguano e che non eliminiamo solo per pigrizia.

Ritengo tuttavia che non si possa prendere a pretesto il cattivo utilizzo della rete e soprattutto dei social network e i diversi aspetti negativi che certamente ci sono per proporre l’inserimento di controlli e limitazioni come avviene nei paesi retti da dittature e come qualcuno ha suggerito anche nei nostri paesi c.d. democratici.

E’ di stamani un intervento di Roberto Saviano intitolato “In Medias Res” che lo scrittore leggerà questa sera al Festival di Massenzio a Roma e che è stato pubblicato sulla Repubblica di oggi e che prende a pretesto il caso Snowden per porsi il problema della necessità di porre delle regole nel vasto mare del web.  

Non voglio dire che alcuni dei problemi evidenziati da Saviano non siano da considerare, come quello non indifferente della privacy. Ed è certamente vero, come del resto accennavo sopra, che  il web è un mare magnum dove si può trovare chiunque e qualsiasi cosa, dove circolano menzogne, idiozie, notizie prive di sostanza o, peggio, false, e dove l'esercito dei complottisti è piuttosto ampio. Ma è anche vero, e lo riconosce anche Saviano, che proprio per effetto della rete è molto più difficile tenere nascoste certe nefandezze. Non per niente la temono le dittature, ma anche le nostre democrazie.

Sul caso Snowden, Saviano afferma che potevamo immaginare che i servizi segreti spiassero non solo milioni di cittadini ma anche le diplomazie dei paesi alleati, però c’è una differenza sostanziale tra avere un sospetto e avere una prova di questo. Certo perché ora sono in imbarazzo chi spiava e chi era stato spiato e lo sapeva, ma deve far finta di indignarsi, di chiedere spiegazioni, continuando tuttavia, come ha dimostrato il dirottamento dell’aereo del Presidente della Bolivia, a perseverare in comportamenti servili.

E comunque il caso Snowden anche se ha scatenato innumerevoli commenti sui social network non è mica stato diffuso dalla rete,  ma, mi pare, da un media tradizionale, un'autorevole testata giornalistica come il britannico Guardian.

Poi non mi è piaciuta la parte dell’intervento ove l’autore dice “Quel che rende forte un’azienda o uno Stato è che ciò che accade al suo interno rimanga conosciuto soltanto a pochi o che venga decodificato, tradotto, prima di essere diffuso. Invece Assange prima e ora Snowden hanno fatto in modo che quelle informazioni raggiungessero il web senza filtro, mediazione, spiegazioni.” Dunque Saviano preferisce un mondo in cui certe notizie siano mediate dagli “addetti ai lavori”. Io preferirei un mondo in cui il livello culturale ed etico medio fossero più elevati.

Posso concordare quando invece l’autore sostiene che “in una situazione del genere, i giornali, i media classici, si trovano davanti al compito difficilissimo di fungere da setacci volti a filtrare solo le notizie a prova di verifiche. I siti dei quotidiani oggi hanno questo ruolo cruciale: costruire autorevolezza. Eppure tale ruolo è minato nella sua credibilità dagli evidenti condizionamenti politici e ancor più economici che gravano sugli assetti e bilanci di molti dei media tradizionali”.
Purtroppo è così ma se i media classici non sono in grado di assolvere al loro compito la colpa non è della rete. E non è ponendo dei limiti alla rete che si risolve il problema.